Gettare lo sguardo oltre, μεταβάλλω. Le fotografie di Rori Palazzo sono metabole del reale che raccontano ciò che non possiamo vedere ma che nel prendere forma sollecitano il desiderio di ambiguità e svelamento. Le composizioni immaginifiche messe in scena nei suoi tableaux photographiques appaiono radicate in un rigore estetico che ci consente di indugiare nel dettaglio di ciò che è rappresentato per andare oltre il limite della forma e accogliere la narrazione simbolica propria del mito.
I corpi senza volto e le figure femminili rimandano a un immaginario mitologico e religioso, assunto come linguaggio in grado di indagare i valori chiave dell’esistenza, la complessità della condizione umana, il dramma psicologico dei ruoli e delle identità sessuali, la possibile trasmutazione in altro.
Il percorso espositivo presentato è un viaggio iniziatico che dal mistero della nascita – serie Alfa – passa attraverso le opere esposte nella seconda sala, intitolata Odòs, ovvero strada/cammino, per giungere alla morte avendo fatto esperienza del senso di perdita e negazione.
Nell’ultima sala – serie Omega –, dopo una lotta con il corpo e i suoi limiti, una figura velata di bianco ritorna all’origine, appare in croce dentro una casa di velo che la avvolge come cavità amniotica. Il bianco che chiude il percorso diventa varco, luce: “si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime” (La trasfigurazione, Marco, 9, v. 16).
Il corpo femminile, al centro della più recente ricerca di Rori Palazzo, diventa specchio sul quale proiettare angosce, ricordi e desiderio di riscatto. Il nudo delle sue fotografie ribalta l’insistere sul corpo come feticcio passivo di una femminilità sessualizzata o reificata, per restituire identità e presenza senza idealizzazione o astrazione. È la diversa prospettiva dello sguardo, negli scatti che compongono le tre serie in mostra, che rende il corpo luogo di trasformazione e affermazione: è contenitore, strumento di metamorfosi, misura del limite e possibilità di cambiamento.
— dal testo critico di Giulia Ingarao